mercoledì 29 maggio 2013

La grande bellezza

Allora, il film sicuramente val e la pensa di essere visto. Impressioni sparse. L'inizio mette il timore che sia una serie di fotografie ben legate assieme. In effetti il regista ci tiene a farci vedere che belle foto fa, e questo viene fuori per tutto il film. COmplice Roma, certamente, ma si sa che fare foto non è semplice e a lui riesce molto bene. Altra impressione. Si fa vedere un mondo molto attinente a quello che, oggi, è il corrispondente dell'olimpo dei greci. Gli dei, i mondani, la gente che conta, comunque coi soldi. La vita reale in questo film non la vediamo, per cui potremmo anche considerarla una metafora, un sogno, qualcosa di irreale, e ci può stare. Sensazioni. Disagio, spesso. Il disagio di una persona che cammina tra due abissi. Da una parte l'abisso di una città bellissima, immortale ma immota, sterile, viva di una morte fossile, stellare, gelida, oscura di marmi e palazzi nonostante il sole. Una città che se con Fellini (i paragoni sono inevitabili, checchè se ne dica) era eterna ma viva ed accompagnava i protagonisti come una nobile vecchia signora caciarona e amichevole, qui assiste alle vicende umane con un occhio immobile e indifferente, una quinta affascinante. L'altro abisso è quello di questa umanità affaccendata a non morire, fatiscente, botulinizzata, che si illude di esistere e di divertirsi, una umanità crepuscolare, fine impero. E l'unico modo che pare sia possibile per sopravvivere a questi due abissi è la consapevolezza cinica e profonda di non contare un cazzo, di vivere nel nulla, un nulla forse indescrivibile, come dice Jep, ma che è rumoroso ed alla fine riempie gli spazi di un nulla forse interiore. Si fa surf, insomma, sulle onde barocche e stantìe di una festa continua, di un chiacchiericcio inevitabile e inesauribile, dove le morti, quelle vere, punteggiano con la loro sostanziale insensatezza il racconto. Ci sono pezzi veramente notevoli. Ricordo la frase del gestore del night : "io mi ascolto, quando parlo". Bellissima. Belle facce, una Serena Grandi sfatta come un Jabba the Hut che veleggia nella palude. Una sorprendente Ferilli, va detto. In senso positivo. Ci sta tutta, è quasi sobria. Servillo bravo, come sempre, anche se quel sorrisino fisso alla fine un po' irrita... un film insomma che non so quanto voglia raccontare la contemporaneità ma se così fosse contribuisce ad una depressione cosmica, senza redenzione. Jep alla fine scopre il rimpianto, non capire perchè l'unico vero amore gli sia sfuggito, lo abbia lasciato, lui arbiter pettegolezzorum, re dei mondani, silversurfer dei brutti flutti umani. Forse era lei, la mondana, la dea selene che si sottrae, e non lui. Lei era la sua anima, perduta in una indaffarata perdita di tempo. Lucida, consapevole, ma inerte e sterile.

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